Basket Brescia, una “leonessa” fiera che non si arrende maiLuciano M. aka Penny di NBA2FACE10 Febbraio 202222 visitePassione Sport0 Commenti22 visite 0 Era il 1849, in pieno Risorgimento italiano. Gli austriaci in veste di oppressori sul territorio bresciano erano più forti, meglio organizzati: una classica situazione da “abbiamo le spalle al muro”. Tuttavia, Brescia non si arrese, non si compianse, non cedette alle ingiustizie. I bresciani insorsero contro l’invasore, contro i pronostici, contro la realtà delle cose. Si rimboccarono le maniche e resistettero dieci lunghi giorni agli austriaci: dieci giorni in cui nacque la “Leonessa d’Italia”, perché è così che Giosuè Carducci decise di chiamare Brescia dopo quanto accaduto. Una città – Brescia – laboriosa, appassionata, fiera. Che non si arrende mai, neanche quando viene messa a dura prova da un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo. Una città in cui lo sport – quello giocato al massimo delle possibilità – è sempre stato un contenitore valoriale solido, dentro cui unità e collaborazione la fanno da padroni indiscussi. Lo sport per Brescia è fare quadrato, soffrire insieme, lavorare per un obiettivo comune. Ecco perché ha sempre avuto tanta importanza per il tessuto sociale. Ecco perch cruciale per una citt che, nella storia, ha avuto il coraggio di combattere insieme contro un “Golia” insormontabile per ben dieci giorni. Fino al 2009, tuttavia, parole come “fuorigioco”, “slalom” o “centroboa” erano le sole ad avere un significato concreto per la gente di Brescia in termini sportivi. In pochi ricordavano cosa fosse – nell’epoca moderna – un “taglio in back-door” o un “pick-and-roll alto”. Ma di lì a poco, le cose sarebbero cambiate. Radicalmente. Nacque, proprio nel 2009, la squadra Basket Brescia Leonessa (il nome non lascia alcun dubbio) e con essa arrivò la Serie A nel 2016. Il grande basket era tornato a Brescia. La passione era ancora ardente, solo sopita sotto cumuli di cenere, ma il fuoco era ancora vivo. L’artefice principale della rinnovata passione per la pallacanestro a Brescia ha un nome e un cognome: si chiama Graziella Bragaglio e ricopre il ruolo di presidente. É lei che decise di capitanare una serie di figure di spicco della pallacanestro nostrana, tra cui Ario Costa (ex Scavolini Pesaro), per far sì che il pubblico della città lombarda potesse tornare tra i protagonisti della palla a spicchi, grazie al titolo della JUVI Cremona. Una donna schietta, sempre positiva, legata alla sua squadra, ai suoi giocatori e alla città. “È stato mio marito a trasmettermi l’amore per il basket. Ha giocato a buon livello con la JUVI Cremona diversi anni fa”, ci dice Graziella Bragaglio in una chiacchierata telefonica molto piacevole. Un sentimento che si è concretizzato, in questi pochi anni, in alcuni traguardi significativi per una franchigia così giovane. “Il percorso per raggiungere la massima serie, nel 2016, credo sia stata una delle cose più emozionanti di questa esperienza”, il presidente non ha dubbi. “Chiudemmo la regular season al secondo posto. Ci aspettavano i playoff con ben 20 partite da giocare in circa un mese di tempo. Una post-season intensa, dove lo spirito combattivo di una città che non si dà mai per vinta venne fuori forte, soprattutto in occasione delle gare decisive. Quelle gare ‘win or go home’, dove anche un passaggio in ritardo o in anticipo può fare la differenza. Trapani, Derthona Basket, Scafati e poi la finale contro la Fortitudo. Dopo 28 anni, tornammo in Serie A. Sono emozioni che solo lo sport ti riesce a dare”. Di emozioni e soddisfazioni ne sarebbero arrivate altre. Come la storica e inaspettata vittoria in Gara 1 contro l’Olimpia Milano al Forum di Assago in semifinale dei playoff nel 2018. “Strepitosa, eravamo veramente galvanizzati”, ammette Graziella Bragaglio. “Ricordo di aver mandato un messaggio alla squadra e all’allenatore, dicendo loro che i muri non si abbattono solo con la forza fisica, ma anche con la forza mentale e con la forza del gruppo”. Soddisfazioni come l’ingresso in Eurocup nel 2018-2019. Soddisfazioni come la possibilità di portare a Brescia un allenatore di valore come Vincenzino Esposito. Trattavasi, a parere mio, di una delle più “demoniache” guardie-tiratrici di matrice italiana mai viste su un campo da basket. Mai sazio di canestri, con un tiro da fuori di caratura NBA, Esposito quando giocava accendeva gli animi e infuocava palazzetti come forse i soli Carlton Myers e Antonello Riva riuscivano a fare. Fu il primo giocatore italiano ad andare nella NBA, quando nel 1996 indossò la maglia degli appena nati Toronto Raptors, in un periodo in cui “essere europei” non era propriamente una medaglia al merito. Parlando di Vincenzo Esposito, il presidente Bragaglio decide di darci una notizia in punta di fioretto molto importante: “Il progetto con Esposito andrà avanti, continuerà a essere il nostro coach. È un vincente, uno stacanovista, uno che conosce davvero la pallacanestro. È un piacere lavorare con lui. Prima del lockdown, eravamo praticamente sulla rampa di lancio. Siamo diventati un sistema ancora più solido, anche grazie alla mentalità che ha portato”. Un sistema solido che, innegabile, ti permette di accedere a giocatori importanti come David Moss o Awudu Abass e come Marcus Landry in passato. Grandi nomi, che accendono la fantasia dei tifosi, come quello di Luca Vitali, che di Brescia ne è play titolare, la guida in campo, l’architetto del gioco. Uno che ne ha viste tante e che ci dice in anteprima: “Ho trovato una vera famiglia a Brescia, ho deciso di chiudere qui la mia carriera”. Quando senti qualcosa del genere, dalla bocca di un giocatore che per anni ha militato in nazionale e nelle squadre più prestigiose del campionato italiano, vuol dire che qualcosa ha funzionato. In campo, Luca – gran feeling per il no-look – uno degli ultimi discendenti dell’antica dinastia dei grandi playmaker ragionatori (alla Coldebella, alla Bonora, alla Brunamonti). Point-guard che pensano prima al passaggio e poi al tiro, che amano servire i compagni perché, come dice lui stesso: “passare la palla è l’essenza del gioco, sono cresciuto idolatrando Magic. I miei passaggi nascono sempre dallo studio della reazione della difesa, cerco sempre di capire che schema chiamare per mettere i miei compagni nelle giuste situazioni rispetto ai propri marcatori”. I suoi passaggi, aggiungo io, nascono – dall’alto dei suoi 2.01 – anche da uno stile di gioco sempre molto in controllo e lucido, da ottime letture sui pick-and-roll centrali, da precisi pocket-pass verso il rollante, da una sensibilità di tocco nel servire i tagli quando penetra-e-scarica. Non fai il record di assist in Italia (18 passaggi vincenti due volte nel 2016 contro Cremona e nel 2017 contro Pesaro) casualmente. Soprattutto in un sistema che conteggia questa statistica in modo molto più stringente rispetto alla NBA (dove passi la palla, chi riceve fa due-tre palleggi, segna e vale comunque come tuo assist). “Non me ne ero praticamente accorto”, ammette candidamente Vitali. “Ricordo che un tifoso passò dietro la panchina e mi disse del record. Capita, sai, in campo non è che stai a guardare le statistiche”. Promessa del basket fin da giovanissimo, stellina locale nella sua Emilia-Romagna, dove ai tempi era famosa la sua rivalità regionale con un altro giovane terribile come Marco Belinelli. “Giocavamo contro, lui con la maglia Virtus, io con la maglia del Castel Maggiore. C’era grande rivalità . Poi, andai anche io nelle giovanili della Virtus Bologna e diventammo compagni e amici. Si vedeva che eravamo tra i più bravi e, all’inizio, più o meno sullo stesso livello. A un certo punto, quando Beli di anni ne fece 15, esplose fragorosamente da un momento all’altro. Prima schiacciava a stento, dopo i 15 anni lo vedevi letteralmente volare. Faceva un arresto-e-tiro e ti lasciava a terra senza pietà. Ma la cosa davvero bella di Marco è che è sempre stato un ragazzo molto umile e semplice”. Ma Belinelli non è stato per Vitali il giocatore più difficile da affrontare, o almeno non l’unico. Quando indossava la maglia di Montegranaro, si è trovato davanti un altro tipetto che in NBA è riuscito a farsi notare più che discretamente. “In una serie playoff, mi trovai a dover marcare Gallinari. Fu davvero un gran mal di testa. Essendo così grosso, quando ti portava in post-basso ti dominava fisicamente. Ti portava fuori e ti tirava in testa. Provavi a negargli il tiro da fuori e ti batteva dal palleggio. Un giocatore straordinario che, probabilmente, ha raccolto meno di quello che avrebbe potuto, per infortuni o sfortuna. Danilo non ha solo talento, ha la mentalità vincente. C’è da vincere la partita e servono rimbalzi? Bene, lui te ne prende dieci. C’è da caricare di falli un avversario? Bene, lui lo punta e se lo porta a casa”. Chiudiamo la conversazione sul tema Azzurri. Luca inizia a parlare col cuore in mano: “Un rapporto di grande amore e di altrettanta sofferenza. Negli anni di Pianegiani, ho dato tutto, accettando di giocare da 2, da 3 o da 4, rinunciando al mio ruolo naturale pur di contribuire. Purtroppo, ci è mancato il successo, per svariati motivi. Nell’Europeo del 2015 – in cui ero infortunato – siamo arrivati a un pallone dall’entrare tra le prime quattro. Capita, siamo stati un gruppo di talento, ma questo da solo spesso non è sufficiente”. Il campionato è stato interrotto, ci si rivedrà il prossimo anno. Graziella Bragaglio, Vincenzo Esposito, Luca Vitali e tutta la squadra, si stanno già preparando. Le difficoltà sono tante, durante la “serrata” obbligatoria per l’emergenza Covid-19. Ma il Basket Brescia, così come la città che rappresenta, si farà trovare con lo spirito giusto. D’altronde, lo dice la storia. Una “leonessa” fiera, che non si arrende mai.